Arrivò a Potenza, prese le scale mobili e subito se ne andò al Jazz Club. Nemmeno il tempo di posare le valigie in albergo che già era seduto sulle poltroncine di vimini della prima fila. Il jazz club era un circolo di autori e lettori, di giorno, ma di sera si trasformava nel Cotton Club o nel Savoy di New York. Tavoli e poltroncine, corde pizzicate, tamburi accarezzati, tasti del pianoforte spinti ad un ritmo antico e deciso, lento e sostenuto. Ad ogni inizio il pianista dava il tempo con la voce, uno sguardo di complicità con il batterista e le note iniziavano a vivere e vibrare, tra le mura bianche del club, colorate solo di arte dipinta su tele appese in bella mostra per farsi ammirare. C’era un pubblico attento, dall’ascolto già maturo. Il pianista nel suo assolo li prendeva per mano per condurli sicuro e leggero nei campi immensi di lavanda, bagnata dal vento e protetta dal sole, distesi tra l’altopiano di Valensole e il massiccio del del Luberon, nell’alta Provenza. Il rullante era un lino leggero che sventolava libero e vivo sotto i colpi del contrabbasso che batteva come un cuore un giovane e forte, sicuro.
Quando suonarono We see, di Thelonious Monk, il trio si esaltò, il pubblico si inebriò tanto che le mani, le gambe e la testa di nessuno non riuscivano a stare ferme. Si agitavano all’impazzata le note e i pensieri, liberi come coriandoli in una festa di luci e colori. A fine concerto lui e Riccardo, il cameriere pianista ormai diventato amico, andarono in una birreria a pochi passì dal club per buttare giù un paio di medie bianche.
“Che bel concerto, vero?”
“Hai ragione, Riccardo! Questa autunno al Jazz Club è iniziato davvero alla grande!”
“E poi il pianista, che bravo!”
“Hai ragione un’altra volta. Quando ascolti musica così non serve mettersi in auto, prendere un treno o salire su un aereo: il jazz ti porta ovunque tu voglia arrivare, se gli dai fiducia e gli concedi la mano, ti conduce in posti segreti e mai immaginati, se lo lasci fare.”
“Sei stato a Roma un bel po’ di tempo, tutto bene?”
“Solo una settimana, ti mancavo già?”
“Sei un buon cliente!”
“Sei un cretino…”
“Ma dimmi, tutto ok nella Capitale?”
“Il solito delirio, la solita Cambogia. I miei stanno bene, è questo quello che conta”
“E quella ragazza? Quella di cui mi parlasti una volta? Con lei come va?”
“Veronica?”
“Già, lei.”
“Ci siamo lasciati. La settimana scorsa abbiamo rotto definitivamente e lei ha lasciato casa” “Caspita! Mi dispiace…”
“Ma no, va bene così.”
“Bene ma non benissimo, direi”
“Si. Ma adesso sono qui, a Potenza. E tu mi farai conoscere tanta gente nuova”
“Certo, amico mio. A proposito, che fai questo weekend?”
“Non so, resterò qui. Vorrei andare a Matera”
“Matera è sempre una buona idea, ma ci puoi andare con calma. Perché invece non te ne vieni con me a fare un giro in bici in città?”
“In bici? A Potenza?” Ma tu sei matto?”
“Dai, non fare il pigro! Hai detto che vuoi fare esperienze nuove? Eccoti accontentato!”
“Hey, ok che certe volte il dolore si supera solo con altro dolore, ma qui stiamo parlando di una pazzia!”
“E tu non vuoi farla? Che ti costa? Al massimo se ti stanchi ti fermi e poi riparti!”
“Senti, non mi provocare. E poi non ho la bici.”
“Tranquillo, a questo ci penso io…”
“Ok, ma adesso facciamoci dare due cruschi…”
Ci pensò lui.
Il venerdì a pranzo gli fece trovare una bella bici da corsa, di quelle degli anni ‘70 ma rigenerata e pronta. Il ciclismo era da sempre una metafora per ogni cosa della sua vita. Aveva letto libri e articoli sul Giro d’Italia, il Tour de France e le gesta eroiche dei grandi della bicicletta. Ma questa volta era diverso, c’erano pedali da far girare e asfalto da consumare. Più prosa che poesia, come dice il grande Rino. La bici era una Atala azzurra con striature bianche. Cambio all’antica, sedile scomodissimo, gomme strette e telaio pesante. Era bellissima, un pezzo da museo all’aria aperta pronto per l’uso. La vernice non era del tutto uniforme, ma nel complesso era tenuta bene. Riccardo aveva fatto già rivedere i freni e i cavi metallici del cambio. La bici era sua, ereditata da uno zio ciclista ormai in pensione e dedito al sigaro toscano. La guardò, la provò: era perfetta per altezza e dimensione.
C’era solo da completare l’opera con un bel caschetto e un paio di guanti per non rovinarsi le mani ed avere più presa. Nel pomeriggio, finito di lavorare, andò con Riccardo in un negozio di bici della zona industriale della città. Più passavano le ore e più saliva in lui una strana allegria, inconsapevole della fatica che avrebbe fatto il giorno dopo, ma così bella che non voleva reprimere per nulla al mondo.