Andare con la mente a tempi passati, rispolverando episodi, personaggi, storie. Riaprire, di tanto in tanto, quello scrigno segreto nel quale abbiamo gelosamente conservato una parte della nostra vita, tutto questo fa Mimmo Guaragna con Amardord.
E’ un cognome, il suo, a me molto caro perchè Pasquale Guaragna, suo padre, è stato il mio maestro delle elementari. E Dio sa come queste persone segnino nel bene la tua vita.
Anche per questo motivo, sommando ricordi a ricordi – lo ammetto – pubblichiamo questo Amarcord, con il quale Mimmo ci racconta la storia della “Signora Carmelina“.
Nino Cutro
LA SIGNORA CARMELINA
C’era una diversità, c’era un mistero che mi colpiva della signora Carmelina; anche un bambino certe cose le osserva e le nota. Viveva sola al piano di sopra nella casa popolare i cui appartamenti si limitavano ad una stanza, la cucina, il bagno e un corridoio dove si poteva sistemare un letto che non trovava spazio nell’affollata cucina; in compenso si aveva a disposizione lo scantinato che tutti, tranne mio padre, chiamavano sottano. Alcuni sottani erano stati trasformati in monolocali abitabili; in uno di questi viveva un’altra signora sola, ma costei non aveva colpito il mio immaginario. Nel palazzo abitava un’altra signora che non era proprio sola in quanto aveva da accudire due bambine e un ragazzo che la guerra aveva reso orfani.
Anche la signora Carmelina aveva due figli, Clelio e Virginia, però non vivevano con lei; la ragazzina era stata affidata alle monache, il maschietto era rinchiuso al riformatorio, dal chiacchiericcio del vicinato riuscii a sapere che si era trovato nei guai per un accoltellamento: non aveva sopportato che si offendesse l’onore della madre. Molto raramente di sera un uomo bussava alla porta, per quanto prestassi orecchio al cicaleccio delle vicine nessuno aveva notizie di costui. La signora Carmelina aveva avuto i due figli da padri diversi; si diceva che uno era ferroviere, entrambi questi signori erano felicemente coniugati e non se l’erano sentita di mettere a repentaglio gli equilibri familiari riconoscendo la paternità dei bastardi.
La signora Carmelina era schiva, si limitava ad un buon giorno e ad una buona sera; se richiesto si rendeva disponibile a dare una mano, per qualche commissione o per fare la puntura dopo che era passato il medico; lavorava a servizio presso la famiglia di un avvocato.
Qualche domenica la venivano a trovare i figli. La ragazzina mi colpiva per la sua fredda bellezza venata nei tratti dalla sofferenza; del ragazzo mi è rimasto impresso la mantella e il berretto dell’uniforme dei riformati che sul suo corpo agile e aggraziato gli pesavano più di un macigno.
Le donne del vicinato chiacchieravano di queste cose senza cattiveria, con una certa comprensione; erano soggiogate dal comportamento dignitoso della signora Carmelina la quale negava loro la soddisfazione di potersi mostrare pietose.
Altra storia quella della signora Maddalena che viveva nello scantinato. Lei era socievole, pienamente inserita nella compagnia delle donne. Aveva una relazione stabile con un signore sposato il quale non perdeva occasione per venirla a trovare. Parliamo di tempi quando il divorzio si vedeva soltanto nei film che ci mandavano gli americani da Hollywood. Nelle sue visite il compagno della signora Maddalena si intratteneva a parlare con le donne; non si presentava mai a mani vuote, c’era il pacchetto con il regalo per la sua donna e i dolci e una bottiglia di vermut per le amiche; il pasticcino mi veniva offerto, per assaporare il vermut dovevo farmi furbo e lesto.
Mia nonna mi aveva spiegato senza perifrasi e senza moralismi la condizione di queste due signore; sotto le grinfie della sua condanna erano rimasti soltanto i due farabutti di padri che non avevano riconosciuto i figli.
Un pomeriggio mamma fu invitata a prendere un caffè a casa della signora Carmelina, era un avvenimento eccezionale, si leggeva sul volto e nei gesti di mia madre che non si trattava di una faccenda di cortesia, qualcosa doveva essere accaduto per provocare questo inusuale invito.
L’Italia era ancora senza la televisione; quando la sera i miei genitori si trattenevano a casa, evenienza molto rara giustificata anche dalla ristrettezza degli spazi, ci teneva compagnia il gracchiare di una radio fabbricata prima della guerra. Mamma spense la radio e si rivolse a mio padre “Lino, ho parlato con Carmelina, mi ha riferito che un giovanotto le ha chiesto di fidanzarsi con lei”; “è una bella notizia, finalmente si sistema” fu il commento di mio padre, “ma potrebbe essere suo figlio! Queste situazioni si incontrano soltanto al teatro e nei romanzi. Carmelina è molto combattuta e rimanda continuamente la risposta; mi ha chiesto un consiglio”; “se tu avessi avuto vent’anni di più ti avrei sposato lo stesso. Chiedile se gradisce che le facciamo da testimoni al matrimonio”; la sicurezza delle prese di posizione di mio padre lasciavano sempre poco spazio alla coniugazione del condizionale.
Anche il matrimonio non rientrò nelle consuetudini. Scoprimmo che la signora Carmelina era della Chiesa Evangelica e la cerimonia si tenne al municipio, con il sindaco costretto ad improvvisare il protocollo sotto la guida del segretario comunale tutto intento a consultare ogni paragrafo di un manuale amministrativo che fino a quel giorno aveva riposato tranquillamente in uno scaffale.
Seguì la festa in una sala presa a noleggio; fu dignitosa però con un sottofondo di tensione. La signora Carmelina non aveva parenti, i familiari dello sposo non davano segni di gioia; ad allietare l’atmosfera erano le signore del vicinato; vennero, e portarono un regalo bello e costoso, l’avvocato e la moglie. Ero l’unico bambino, non mi annoiavo affatto grazie alle cure di Virginia e di Clelio la cui gioia si manifestava esplosiva perché la madre aveva regalato loro un papà.
Erano passati molti anni, con la morte di mio padre avevo dato l’addio definitivo alla scuola che già da un anno non frequentavo più. Mi ero iscritto al Partito Comunista e andavo sui cantieri edili per conto della CGIL. Una sera in osteria tra i compagni muratori c’era aria di tristezza e di sconforto e il vino aiutava qualche lacrima a venir fuori; nella tarda mattinata era morto un manovale cadendo da una impalcatura; le parole si rincorrevano e ritornavano sugli incidenti nei cantieri. Pietro, membro della segreteria del sindacato e assiduo frequentatore del Partito, ci informò che il discorso funebre lo avrebbe tenuto Gino Grezzi, il deputato che i compagni edili stimavano e amavano per la sua dedizione e la sua umanità. I ricordi richiamarono altre orazioni funebri di Gino che si erano fissate nelle menti dei compagni quasi parola per parola. “Vi ricordate quando morì Salvatore; che bravo ragazzo che era! Tutti gli volevano bene; è stato veramente sfortunato,; la morte se lo è chiamato nel pieno della giovinezza”.
Erano passati alcuni anni. Per l’assenza di misure di sicurezza, durante i lavori di sterramento era venuto giù un muro di sostegno che aveva travolto Salvatore. Anche io ricordavo quel funerale: il discorso di Gino, la preghiera del pastore evangelico e mia madre, da poco vedova, in lacrime che abbraccia la signora Carmelina, Virginia e Clelio.
Mimmo Guaragna