La lettera dal treno
Nel treno di domenica, tornando verso casa, la luce del tramonto si era fatta un po’ più lontana e meno calda. Scorreva malinconica la linea irregolare dei luoghi e delle case, ormai così familiari da sembrare una cosa sola tra la vita della carrozza 7 – chissà perché sempre la stessa – e quella lì fuori. Il freddo che ormai tirava da giorni aveva cambiato i colori degli abiti e dipinto l’aria di un silenzio più intenso. Presente. I viaggi verso casa hanno una straordinaria capacità: ci impongono riflessioni sui nostri giorni, che diventano promesse o parole segnate a matita sull’agenda dei giorni che verranno. Il viaggio verso casa è un intimo circolare di volti e calore, di voci e suoni buoni. Ogni viaggio lungo gli regalava tempo e gli imponeva il riflesso della sua immagine nel finestrino. Lui la guardava, non la evitava, riconosceva la sua faccia, la mia barba. Tutte le volte che tornava a casa, da quando anche il suo passo si era fatto meno incerto, c’era un sentimento impaziente che lo muove e si muoveva dentro di sé. L’unico modo per ingannare l’attesa dell’arrivo era ritmare il tempo con parole e note. C’erano ancora molte fermate prima della sua e per quel viaggio aveva preparato una playlist composta da brani di Nils Frahm. Mise gli auricolari, alzò il volume il giusto da potersi isolare ma nemmeno da dar fastidio agli altri viaggiatori, e si lasciò cullare dalle sette note distribuite su tasti bianchi e neri.
Era stato a Roma da Valentina, la sua fidanzata da quasi un anno. Ogni fine settimana era così: un abbraccio all’arrivo, un saluto ed una lacrima leggera alla partenza. Teatro di tutto ciò? La stazione. C’era stato un tempo in cui, viaggiando molto per lavoro, osservava con ammirazione e stupore le coppie degli innamorati che ci salutavano nelle stazioni. In ogni stazione d’Italia era una scena che si ripeteva spesso. Ogni volta si stupiva nel vedere tutto questo amore lasciato e poi ripreso sui binari dove correvano i treni delle partenze o dei ritorni. Gli innamorati nelle stazioni sono il quadro più bello dell’amore resiliente, che sa resistere al tempo e alle distanze, che sa gestire le attese e confida negli abbracci riparatori. Le emozioni di questo weekend trascorso con Valentina erano ancora vive sulla sua pelle, ne sentiva ancora il profumo e l’intensità. L’amore che si regalavano reciprocamente era sempre la giusta ricompensa dopo giorni di attese e fantasia cariche di passione. Il treno viaggiava verso nord, la stazione di Milano Centrale era ancora a un’ora e mezza da lì. Anche se la stanchezza iniziava a farsi sentire, l’amore per Valentina era così forte che ogni sforzo, ogni fatica, ogni rinuncia erano sempre giustificate, così come le attese sommate in questo tempo erano sempre luoghi imprecisi, esperienziali, da attraversare per raggiungere il cuore di lei, la sua casa più bella. Di Valentina amava tutto, il profumo della sua pelle, il modo in cui inventava e raccontava storie, la determinazione che infondeva nel suo lavoro, la forza di volontà, a capacità di ascoltare tutti senza giudicare, la sensibilità che le regalava una dote speciale, il suo saper essere presente e rassicurante anche con una telefonata, con un semplice messaggio della buona notte. Valentina era la primavera più bella del suo tormentato inverno dei sentimenti, fatto di sbagli sommati e sentimenti rammendati. Ormai contava la distanza non più in chilometri ma in desideri e ogni domenica, ogni maledetta domenica, quel bacio in stazione era insieme ferita e cicatrice, presenza e assenza, inizio e fine. Forse per la musica così dolce o forse perché questa volta separarsi da lei era stato davvero difficile, si sentì fortemente ispirato tanto da scriverle una lettera digitale.
Cara Valentina, mio dolcissimo Amore.
Sono passate appena due ore da quando le mie labbra si sono staccate dalle tue e già sento la tua mancanza. La sento ovunque, in ogni parte di me, e non trovo pace. E sarà così fino a quando non ci rivedremo. Perché è sempre stato così. Lasciarti mi da noia, irrequietezza, mi fa sentire mancante di una parte di me. Questo sei diventata tu: un pezzo di me che non sapevo di avere ma che oggi è il mio orgoglio, il mio vanto.
Non so se te l’ho già detto, ma la cena di ieri sera è stata squisita e tu sei stata bravissima a dosare la giusta quantità di sale che per me è ormai peggio della kryptonite per Superman. Da quando ho questo fastidio alle orecchie devo regolare molto le mie abitudini alimentari, calibrare bene i movimenti e sperare che un giorno, prima o poi, questo ronzio mi lasci finalmente libero.
Questa mattina, appena sveglio, sono rimasto per un po’ di tempo fermo a guardarti mentre dormivi. Eri dolce e bella, con le labbra morbidissime. Sarei rimasto ore ed ore ad ammirarti, se solo avessi avuto il talento di un pittore avrei composto un’opera d’arte sul tuo risveglio. In questi giorni che verranno, sono sicuro, fino a quando non ci rivedremo, sarà il momento che mi mancherà di più. Perché sono stanco di svegliarmi al mattino e non trovarti. Stanco di tornare a casa la sera e non poter stare con te, raccontarti della mia giornata e ascoltare la tua. Nei momenti di solitudine casalinga, rifletto spesso su me stesso, sulla vita degli altri, sulla strada percorsa fino a questo punto. Ogni tanto mi domando se ho investito il mio tempo, il mio affetto, le mie parole nelle persone e situazioni sbagliate o se questo stillicidio di delusioni, alle quali la maturità non abitua mai, facciano parte della vita di tutti. So già a cosa stai pensando, ma non è un pensiero che si affoga nel pessimismo cosmico che mi pervade per via di questo trasferimento a Milano. Mi capita spesso, soprattutto in treno, di guardare l’umanità che mi circonda, con le sue innumerevoli sfaccettature e le inevitabili somiglianze. In treno poi, siamo davvero tutti uguali, non c’è luogo più democratico di questo. Perché siamo tutti destinati all’attesa, confidiamo in una guida che non conosciamo, e speriamo che all’arrivo sia tutto migliore di come lo abbiamo lasciato. C’è una segreta speranza che vive sui treni e che si nutre di attese, desideri, pensieri sospesi, caffè che non sanno di niente, voci di bambini e telefoni gracchianti. Io ormai ho con il treno un rapporto speciale, ne conosco il respiro ed familiarità con questi vagoni. Quando ci salgo, quando siamo in stazione a Roma, mi viene sempre da canticchiare quella canzone di Dimartino che mi mandasti la prima volta che sono venuto da te.
“Io odio immensamente le ferrovie dello stato perché è lì che ci diciamo addio quattro volte al mese. E le tue scarpe rosse da sedicenne alcolizzato che inciampano nelle valigie e nei biglietti troppo cari. Ah, sarebbe bello non lasciarsi mai, ma abbandonarsi ogni tanto è utile o necessario alla sopravvivenza di animali in estinzione come noi”. Sarebbe davvero bello non lasciarsi mai più, perché per noi l’abbandono è inutile, straziante, per nulla necessario. Come ti dicevo, anche questa volta non sarà semplice consumare questa attesa, ma la voglia di vederti è già tanta che mi darà la forza di superare tutto. Anche il logorio di questo lavoro, in questa scuola della provincia, in cui sto insegnando e che tra qualche mese finirà per ricominciare chissà quando e chissà dove.
Valentine, my funny, che regalo smisurato che sei. Non smetterò mai di ringraziarti per tutto il bene che mi concedi, con una grazia naturale ed una gentilezza così rara, così preziosa. Certo, il nostro amore ha conosciuto anche momenti difficile, in cui le parole ci sono piovute addosso con violenza inutile e corrosiva, ma la forza della sua bellezza ci ha permesso di superare tutto, salvaguardando le radici e spuntando i rami secchi che rischiavano di far venir giù questo nostro albero. Ho voglia di abbracciarti, di tenerti stretta a me come quella volta sotto la pioggia d’estate a Poligano, quando la gocce ci bagnarono d’improvviso mentre attraversavamo le vie del centro in cerca di un ristorante dove pranzare. Ho voglia di sentire il suono della tua voce, di ascoltare e tue parole che consolano e illuminano lì dove il mio sguardo non è ancora arrivato. Con l’immaginazione però so arrivare ovunque, anche a vederti al mio fianco in una sera d’inverno, accoccolata sul divano a vedere vecchi film della Nouvelle Vague, di quella Francia che tanto sogni e che così bene mi racconti. Mi perdonerai se mi sono dimenticato di chiederti se hai deciso di scrivere il libro sul reportage in Africa di quel fotografo che lavora con te. Spero tu lo faccia, perché è una bella storia che solo la tua penna è in grado di rendere così come merita. Ormai sono anni che lavori in questa Onlus, ma una storia così intensa e pregna di valori positivi, non l’hai mai incontrata. Ricordo ancora le lacrime che versasti quando Emiliano ci raccontò delle notti in Sud Sudan, della guerra, degli accampamenti, delle scuole in aule improvvisate e della povertà così estrema e vasta da sembrare senza soluzione. Il monitor del vagone dice che tra poco saremo a Milano, il che vuol dire che dopo venti dall’arrivo minuti sarò a casa.
Devo andare a comprare qualcosa per la cena, una bottiglia di vino rosso, una cassa di acqua e altre cose per il bagno. Spero di trovare aperto il negozietto sotto casa, che ormai, purtroppo, chiude prima delle nove di sera. Sono cambiate molte cose in Italia da qualche tempo a questa parte, ma per fortuna Milano resta un baluardo della modernità e dell’integrazione. Quella praticata, non quella predicata. Se solo fosse per sempre questo lavoro, ti chiederei di trasferirti qui, di venire a vivere qui, perché una città così piena di stimoli, bellezza, cultura e opportunità è proprio il tuo luogo ideale. Mi preparo per scendere dal treno, metto la giacca e prendo la borsa. La batteria del telefono è quasi scarica, ho dimenticato di caricarla qui sul treno. E’ buio ma non ancora notte, dal finestrino vedo le case degli altri e sogno un giorno di poterne avere una con te. Un’altra domenica sta già allungando le mani ad un nuovo lunedì..
Ti amo.
Follemente.
Immensamente.
Totalmente.
Inesorabilmente.
Sempiternamente.
Tuo.