Deluso, usiamo un eufemismo, Giovanni Barozzino, ex senatore di Sel, per non essere stato candidato da Liberi e Uguali, sebbene il suo nome sia circolato nei giorni infuocati della composizione delle liste.
“Forse è arrivato il momento in cui io dica la mia” scrive in una nota e lo dice senza peli sulla lingua, sebbene parti da lontano: “Già da tempo avevo aperto una riflessione prima personale e poi con i compagni a me vicini sulla possibilità di rientrare in fabbrica”. Ricorda la posizione assunta in questi anni in Parlamento quale rappresentante di Sel su alcune questioni importanti, alle quali ha dato il suo contributo critico, facendo tesoro della lunga militanza nel sindacato.
Un modo di far politica, afferma, nella consapevolezza che “non deve essere solo parole ma fatti, sottraendola così alle tentazioni elettoralistiche. Solo in questa visione avevo dato la mia disponibilità a una candidatura, la quale non doveva e non poteva essere altro che l’immagine di quanto da me svolto in questi anni”.
Cosa è accaduto invece? Scrive Barozzino. “Purtroppo ad agire non è stata la politica, ma gli interessi di parte e di qualcuno che ha inteso il progetto come un viatico personale: questo è il senso della proposta avanzatami circa un terzo posto “utile” differito nel tempo, con l’unico intento di ipotecare improbabili e improponibili scenari futuri (le elezioni regionali).
La dignità di chi, come me, è abituato a lottare nel proprio luogo di lavoro tenendo testa a un padronato famelico non mi consente di accettare questa ennesima morte della politica. Soprattutto – afferma – non potevo accettare questi giochi da chi, in questi anni, non sempre ha avuto un atteggiamento coerente contro quelle politiche che hanno contribuito a rendere più ingiusto e diseguale questo Paese.
Da domani – conclude Barozzino – sarò lì dove ho imparato che la politica non può sempre essere gioco di tattica, ma anche un processo di cura della dignità delle persone”.
Giovanni Ragozzino, lo ricordiamo, era stato licenziato, insieme ad altri due operai Antonio Lamorte e Marco Pignatelli dalla Sata di Melfi per un presunto ”sabotaggio della produzione il 13 luglio del 2010. Furono reintegrati definitivamente in seguito alla sentenza della Cassazione del luglio 2013.