Si poteva evitare l’alluvione che il 7 ottobre del 2013 causò danni ingenti nel Metapontino, in particolare nella zona di Ginosa, alluvione in seguito al quale morirono quattro persone.
A queste conclusioni è giunto il pubblico Ministero Ida Perrone sulla base delle risultanze della perizia dell’ingegnere idraulico Luigi D’Alpaos dell’Università di Padova. Il magistrato ritiene responsabili di quanto accaduto trenta persone tra dirigenti e tecnici dell’Autorità di bacino della Basilicata, della Provincia di Taranto, dei Comuni di Ginosa e Laterza, del Parco naturale Terra delle Gravine e dell’Acquedotto Pugliese, alle quali è stato inviato l’avviso di conclusioni delle indagini preliminari.

Secondo l’accusa, le condotte degli indagati avrebbero determinato una «grave alterazione del territorio e dei centri abitati con esposizione in pericolo della pubblica incolumità». In pratica, a causare il disastro sarebbero state omissioni e mancata manutenzione di impianti idrici e corsi d’acqua da parte di chi doveva sorvegliare. La forte pioggia del giorno precedente al disastro, inoltre, avrebbe dovuto indurre i tecnici a dichiarare lo stato di preallarme. Cosa che non avvenne. I reati contestati sono di cooperazione colposa in inondazione, disastro innominato colposo e omicidio colposo.
Il violento nubifragio devastò interi paesi nelle zone al confine tra Puglia e Basilicata, causando, come si diceva, la morte di quattro persone: Pino Bianculli, 32enne di Montescaglioso (Matera), infermiere in una clinica a Ginosa. Tentò di fuggire allontanandosi dall’auto, ma fu travolto dall’ondata. Il suo corpo fu trovato dopo giorni dai vigili del fuoco. Rossella Pignalosa, una ragioniera trentenne di Ginosa, fu travolta dalla piena. Chiara Moramarco e suo marito Giuseppe Bari, entrambi di Altamura, erano custodi di un cantiere a Ginosa: la loro auto fu travolta dal fiume di fango in contrada Pantano, i loro corpi trovati il giorno dopo l’alluvione.